About Me
CERCANDO MISAKI - Respiro a bocca aperta
CERCANDO MISAKI - Respiro a bocca aperta
Una vita sospesa, inutilmente vissuta dopo un evento che la segna pesantemente, preda dei "mostri" dello spirito che la divorano lacerandone il debole ordito. Un incontro "casualmente causale" come sappiamo esserlo quasi tutto quelli che ci vengono proposti per chiamare in causa il nostro fragile libero arbitrio. Il resto è un sottile gioco d'ombre cinesi che si stagliano su uno scenario d'inquietante quotidianità, nell'apparente normalità della vita di due giovani e delle figure che li circondano, solo apparentemente co-protagoniste di una favola dal grande valore simbolico.
Ancora una volta Salvatore Giampino ci immerge nel profondo della sua magica realtà per sottrarci alla tentazione di rassegnarci alle regole cieche e frustranti di un materialismo diffuso e di un'omologazione solo apparentemente rassicurante. I suoi scritti scuotono profondamente ma con delicatezza, senza violenza, la nostra dimensione interiore risvegliandoci da quel torpore nel quale siamo volutamente immersi da un sistema potente e infaticabile capace di inventarsi scenari immaginari che ci propone come unica e inconfondibile realtà.
Conscio della grande responsabilità che attende coloro che sentono dentro di sé l'estraneità a questo mondo "virtuale" creato solo per confondere le idee e imprigionare le menti, l'Autore sviluppa una notevole capacità affabulatoria nell'intento di offrire una "parabola" di facile lettura che abbia contenuti diversificatamente comprensibili ai livelli di percezione della dimensione spirituale e trascendente che è in noi. In questo caso, vista l'importanza del messaggio che intende proporci, il grande affresco che Giampino costruisce intorno ai due protagonisti, è sapientemente misurato nei suoi ingredienti in modo che èpossa essere gradialmente assimilato dal lettore che giunge così all'epilogo, inatteso e suggestivo, sentendosi parte di quell'universo nel quale si è compiuto il miracolo di un rinnovato patto tra la divinità e l'uomo.
E' un labirintico percorso che si snoda su piani diversi che si incontrasno e si confrontano dimostrando la loro assoluta complementarietà. Nessun dualismo tra materia e spirito, nessuna conflittualità se non quella artificiosamente creata per generare confusione e seminare l'oblio: un'armonia cosmica regola le leggi della vita e della morte; non esistono porte di bronzo a dividere i diversi stati dell'esistenza quando non si violano le leggi della Creazione. Altrimenti è l'umanità stessa ad erigerle dentor se stessa, obliando la propria identità e rinunciando a comprendere il senso delle cose e il meraviglioso disegno del Creatore di cui è parte ed artefice. Una lettura ricca di suggestioni che propone, con delicatezza e acutezza, tematiche di grande attualità afforntete e lette alla luce di una Sapienza che non è quella delle umane certezze riconducibili soltanto alla ragione, ma attiene all'appartenenza ad una dimensione "altra" imprescindibile riferimento per ogni nostro agire se non si vuole che vivere sia soltanto un mero consumare inutilmente i giorni che ci sono stati dati, rimanendo impotenti apettatori del nostro progressivo annichilimento.
Stefano Mecenate
CASE VERDI, CASE GIALLE - "I culura " di un'Estate Fantasmica
CASE VERDI, CASE GIALLE - "I culura " di un'Estate Fantasmica
Alice nel Paese delle Meraviglie è ancora un libro che inquieta, specialmente gli adulti: quella tana dove Alice penetra in un mondo parallelo, spaventa coloro che sono ormai da lungo tempo abituati a vivere nei "rassicuranti" binari di un materialismo consumistico e alienante. E' oltremodo destabilizzante quindi aprire porte "magiche" che propongono orizzonti più ampi e vertiginose vette dalle qualio ammirare il cielo sopra le nebbiose nubi dell'omologazione; chi lo fa "paga pegno", ovvero è visto in modo sospetto, giudicato un farneticante sognatore o ,peggio, come un portatore di idee malsane che fanno solo confusione nell'ordine rappresentato da un razionalismo strumentale.
Per fortuna, però, c'è ancora chi ha il coraggio di remare controcorrente e non ha paura di infilarsi nella "tana" del coniglio di ALice: di ritorno dal suo viaggio, ci racconta con piacere delle avventure che gli sono capitate e ci illumina sottraendoci dal grigiore di una quotidianità spesso frustrante. E' il caso di Salvatore Giampino che con questo suo primo volume di racconti ci porta in una realtà magica, la stessa che ci passa accanto ogni giorno ma che sempre più spesso non sappiamo riconoscere. Magia di emozioni e suggestioni che abbracciano all'unisono il cuore, la mente, l'anima dandoci quel senso di completezza che ci manca, divisi tra ragione e sentimento.
Ci rapisce nelle atmosfere di un'estate siciliana e, complice la purezza impudica dell'adolescenza, , ci mostra l'altra faccia della normalità, una faccia solo apparentemente "oscura" che in realtà, nella prosa di Giampino, acquista progressivamente luce ed energia, liberando i suoi benefici effetti che rimangono addosso con un senso di struggente nostalgia.
Una lettura facile e accattivante, rende questi racconti ancora più accessibili anche a un pubblico più giovane andando a colmare una grave lacuna in un "target" drogato da una letteratura troppo spesso "spazzatura" che scimmiotta video games e cartoon telvisivi. Una bella opportunità per ritrovare armonie perdute e riconoscerle accanto a noi, come accadeva cogli Elfi ed i Troll dei boschi in epoche ormai lontane quando l'uomo e la natura dialogavano senza paure...
Stefano Mecenate
Gli alieni del villaggio. Salvatore Giampino, “Fiori di Cactus”
Gli alieni del villaggio. Salvatore Giampino, “Fiori di Cactus”
Gli scemi del villaggio. I folli. Gli alieni. Le maschere. I fiori del deserto, i cactus. E una postfazione per i racconti di Salvatore Giampino: Fiori di Cactus (Racconti), Navarra editore, Marsala, 2009. € 8,00.
Schizzi veloci come tante pennellate per raccordare i tanti punti di una costellazione fatta di figure particolari. Una rete che mette a punto una testualità unitaria come un affresco che rappresenta e significa un ambiente soggettivizzato e la sua temporalità: Fiori di cactus. Fiori di cactus è l’ultima prova letteraria, in ordine di tempo, con cui Salatore Giarnpino si misura e ritorna a Marsala. Il tracciato miscela in unico tessuto il vissuto proprio e quello di tante “apparizioni” che hanno materializzato il quotidiano e l’altro della vita antropologica, sociologica e culturale di questa città.
Avendo questo lavoro fra le mani, non si può fare a meno di vedere una certa continuità tematica fantastico-memoriale con gli altri suoi due lavori precedenti, Case verdi, Case Gialle (2005) e Cercando Misaki (2008).
L’incipit è un coagulo e poi un percolamento che filtra e diluisce. Un intervallo di tempo (estate), un anno preciso (2008) e un nodo spazio-temporale altrettanto determinato del suo arco (le tre di notte sulle scale della “Matrice” della città) sono, infatti, le coordinate che l’autore dà al suo lettore empirico ed ideale per un quadro informativo e comunicativo trasfigurato. Una manipolazione scritturale che investe l’emittente e il destinatario in un processo di “formazione” che utilizza la realtà effettuale delle “maschere” o personaggi come un segno che non decifra ma enigmizza. Il quadro comunicativo risulta infatti trasfigurato, e tale che l’aspetto descrittivo è già connotato e funzionale a un progetto di senso e di significazione altra. Una significazione “narrativa” cioè che richiede una cooperazione dialogica complice o tesa a coinvolgere il lettore nella griglia dei valori semantici che la stessa voce osservatrice e focalizzatrice dell’autore vuole centrare come un essenziale coinvolgimento onirizzante. I personaggi così, e le maschere che li significano, vanno bene oltre la loro stessa datità storica, almeno per quanti conservano una certa memoria realistica dei personaggi in questione e del loro esserci, per farsi un altro mondo impossibile eppure descritto e detto. Tutti i personaggi, che una comune descrizione medico-psicoclinica classificherebbe con patologie diverse, ma patologie, nella descrizione alterata dell’autore, infatti assumono le vesti di messaggi magico-allusivi come possono essere le con-figurazioni suggerite dal gioco della sabbia rossa sui nostri itinerari isolani (le nostre strade spalmate di sabbia e polvere rossa sono delle vere e proprie scacchiere di figure in movimento), quando lo scirocco soffia il mediterraneo africano, o dalla geografia segnala dai fiori di cactus in un deserto. Un gioco di scambi metamorfosizzati in cui la “Pupa”, come nella psicologia delle forme ambigue, è una larva di farfalla che si fa donna e una donna che si rinchiude di nuovo nel suo bozzolo d’origine.
E come se l’autore, fermando la sua coscienza sulle figure di significato, che hanno caratterizzato la sua storia personale, articolatasi tra un ambiente familiare d’origine e i luoghi altri del suo itinerario di crescita successivo, volesse rendersi/ci conto della propria identità di soggetto ibrido in quanto coscienza che fin dall’infanzia ha trafficato con gli spostamenti nomadi, e quindi sempre straniera. I luoghi del quotidiano, le sue qualità e gli stimoli ricevuti e trasfigurati gli hanno dato il kairòs per oltrepassarne la materialità grezza della contingenza degli eventi (comuni alla Città e ai suoi figli) in vista di passaggi e presagi fantasiosi quanto legati allo stesso immaginario del luogo. Habitat e cose, forse più “oggetti” letterari che cose, in questi Fiori di cactus, ci danno la possibilità reale e irreale di star dentro, allontanandocene, a una configurazione dinamica di soggettività e oggettività narrativa su cose e relazioni che non interessano solo gli indigeni. Appartiene, infatti, alla cultura degli uomini in genere, leggere fatti ed eventi esterni come organizzazione e proiezione degli umani vissuti e della loro categorizzazione.
Sì, perché è proprio l’identità trasfigurata, propria e altrui, — e che diventa il topic della narrazione di questi brevi scritti fotografici quanto immaginari, — che la scrittura di Salvatore Giampino ci propone per guardare queste “maschere“ foto-simboliche e dagli occhi bucati, spaesati. Maschere come fiori di cactus che hanno fatto la storia detta e non detta sia della Città di Marsala che del vissuto di ciascun nativo, e che nel quadro fattone dall’autore diventano il luogo unitario di questi schizzi già separatamente pubblicati (uno alla volta sulla testa giornalistica “Marsala c’è”), e qui raccolti in silloge. Così questi personaggi, colati dal filtro surreale della penna/ pennello dell’autore, come tanti fiori di cactus, che pur anima-no la vita di un deserto o di una terra desolata, connotandola di altra e insolita bellezza e fascino, ci restituiscono una carta geografica esistenziale e territoriale intrecciata e determinata da varie coordinate.
Coordinate che lo scrittore ha già fissato in partenza nell’introduzione — che accompagna “Fiori di cactus” — per una lettura quasi “chiusa” o rivolta a un ipotetico complice lettore che con lui possa specchiarsi nelle stesse acque come un secondo Narciso.
Dalla stagione (estate 2008), all’ora precisa (“sono le tre di notte”), alla presenzialità che si muove tra il passato (“… da bambino, fissavo incantato mentre quelle minute scaglie… fissavo incantato mentre seduto sulla tazza…”) e il presente ( “Sono, ora, seduto sulle scale della “Matrice”, come un tempo, in compagnia di alcuni amici…”), il racconto si fa narrazione e procede per schizzi veloci e montaggio di fotogrammi come una complessa testualità connotativa. La scrittura, cioè, apre così degli spazi per inferenze partecipative e anche critiche.
L’apertura di senso non impedisce, infatti, mediatori il distacco e le fratture spazio-temporali e storico-culturali che legano l’opera e la “ricezione“ postuma, di essere, contemporaneamente, lettori critici. E critici non solo perché si nota anche una vena, talvolta alienante, che circola sotto il timbro del sentimentale, del pedagogico e del senso comune — come può essere quello dell’ “anima bella e pura” che ti insegna e cui devi dire grazie e salutarla con gratitudine e grazia —, ma perché, in compagnia dell’opera, l’autore ci rende soggetti di “giudizio” o di relazioni che arabescano quanto non detto dalla scrittura oggettivata, ma in questa virtualmente presente. Diverse le bussole orientative in questa direzione: “BUM!!… una lira “, “Mommo contro Nenè “, “Alla fine dell’estate”, “Nenè Pastacull’agghia”…
Certo è che per imparare bisogna pur dimenticare, e questo si fa anche attraverso la scrittura letteraria e non solo scientifica: la verità non appartiene solo alla scienza e alla tecnica! Questa dimensione di “Fiori di cactus” di Salvatore Giampino, come nelle altre due precedenti opere, è qui pure presente come meridiano che li attraversa e li ripropone a una lettura straniata; e, con distinzione, ci sembra, poterla individuare e indicare nell’intreccio letterario che la scrittura sviluppa anche come un’opera pittorica o testualità impastata. Un impasto di lettere cromatiche che connotano/pitturano i personaggi coimplicati con fili delle maschere-fiori-di-cactus-figure mobili di sabbia, di nuvole o di sogno modellati con i colpi di stilo del vento di scirocco della nostra terra siculo-africana. Lo scirocco, il vento del viaggio e del visaggio che tra-duce e se-duce lo “straniero” fra gli anfratti del paesaggio geografico e del seme/soma nomade stanziale.
Nino Contiliano
L'altro lato delle cose - Introduzione di Nino Contiliano
L'altro lato delle cose - Introduzione di Nino Contiliano
Cercare una chiave di lettura è un interrogativo e un compito non eludibile tutte le volte che un testo letterario offre e chiede al lettore, ingenuo o critico, un’ipotesi di senso e l’ancoraggio a uno spazio-tempo presente e/o di memoria in cui si snoda la narrazione e la direzione. Una interpretazione cioè che attraverso i passaggi dello stile discorsivo delle sue pagine – realizzati nell’enunciazione enunciata e lasciati come tracce e indizi (elementi interni o deittici: pronomi personali, dimostrativi, tempi verbali e forme avverbiali di spazio o tempo; referenze esterne al testo: date, nomi personali, fatti oggettivi, ecc.) – può trovare una possibile sutura tra la soggettività e l’identità di chi scrive e di chi legge. Una cucitura che, partendo dall’espressione di superficie e fino ad arrivare ai livelli del campo semantico complesso dell’opera, non è tuttavia, fortunatamente, scontata e univoca, bensì oscillante tra ambiguità e polisemia denotativo-connotativa processuale verbale e non verbale. Nel caso di questa nuova narrativa di Salvatore Giampino, la pratica significante, infatti, è un tessuto che relaziona iconizzazione linguistica, propria alla scrittura letteraria, e icona visiva, l’immagine foto-artistica. Una scelta del dicibile e del visibile che, tuttavia, non abbandona le consistenze delle ombre, le zone opache (ma non per questo asignificanti) del discorso. Non ci troveremmo (diversamente) innanzi a un’opera letteraria! Éduard Glissant (Poetica del diverso; Poetica della relazione) dice che nella comunicazione, in genere, e in quella artistica in specie, ridurre l’“oscurità” nella “trasparenza” è “barbarie”. Il linguaggio trasparente non è in condizione di portare alla luce simultaneamente il mare delle piccole percezioni e delle vibrazioni ondulatorie singolari che, contraendosi, danno vita ai corpi e ai testi artistico-letterari come masse lisce; e che poi, sciogliendosi, all’arrivo della lettura e dell’ascolto, invece, suggeriscono e alludono superfici porose. Non per niente un’opera letteraria lavora anche sul non detto, l’implicito, il differenziale culturale e l’“enciclopedie” differenti e differenzianti dei soggetti (dentro e fuori il testo) coimplicati che abitano i paesaggi sociali, e richiamano i passaggi che legano la lingua dei corpi a quella della psiche e della cultura. Il loro patrimonio simbolico non è solo diverso (non coincide), ma è anche tagliato dalle distanze spazio-temporali, per cui ne nasce una congiunzione-disgiunzione piuttosto movimentata e congetturale.
Il lavoro letterario cui stiamo alludendo, nel caso, è il nuovo libro di Salvatore Giampino (un pluri-arte-facere: pittore, designer, pubblicitario, scrittore), L’altro lato delle cose. Un libro che in realtà racchiude una serie di racconti brevi e incisivi e una “testualità” pragmatica che non tralascia (certo) di dire al lettore che il suo soggetto motore è: un “sognatore dell’assurdo” e uno che non ama la “visione infernale dell’esistenza (...) negazione del sogno”(Bar Italia); un giocoliere del segno che usa il significante come un metasegno e combinatoria fonosemantica per significare una matrice speculativa relazionale causale tra il suo «Io fondante» e «Dio»: «In verità, Io è Dio senza “D” (...) e se Dio è causa e inizio di ogni cosa, lo è anche di me e dunque anche Io lo sono di me, ma anche tu che leggi e ascolti lo sei» (Cuclucsclan); un parodista che si diverte e diverte rispolverando il “maccheronico” dall’incipit fiabesco: «C’era in illo tempore, lontano, un’istrania salita, da lo profilo de la quale si scorgean ciuffa: poca rama di palma che parean proprio come li peli su lo petto de lo comandante Bluto, simulanti una carnale florescentia fujta da lo scollo a “V” che si componea ne lo incrocio (...)» (Ciuffa).
Ogni racconto, come in un cono rovesciato, è accompagnato da foto-immagini che, create dalle mani di Angela Ruggirello, propongono un supplemento “speculare” come un’altra traccia nel bosco delle ombre che abitano i corpi. La posizione rovesciata di questa pittoscrittura, realizzata con codici diversi (grani di luce, prospettiva, linee, tratteggi, cromaticità, sfumature, ecc.), è una testualità – occorre non sottovalutare – posta in termini di complementarietà “iconica”, un’altra finestra da cui guardare dal/nel caos delle cose. Una potenza proposizionale della discorsività visiva che, accompagnata a quella del dicibile, ci sembra, sia tesa a scandagliare “anamorfosicamente” il «Kaos» (termine ricorrente in queste scritture) che ad elevarsi nelle sfere ideo-logiche spirituali dell’autore stesso, scavando il corpo delle astrazioni sparse nella “langue”. Una potenza della “parole”, lo scavo simbolico, che deborda la stessa cornice in cui il nostro autore pone ogni racconto, e ciò, naturalmente, dopo aver scelto un incipit stilisticamente marcato, o una sorgente o un deposito in cui il linguaggio si veste e si configura con i suoi effetti paradossali di realtà-finzione come un “attante” che se ne fa carico per intrecciarlo.
Così, ritornando alla “chiave” di lettura o alla necessità d’individuare un’ipotesi di senso, ogni incipit di questi racconti, è da assumere, secondo chi scrive, come una regia preposta al coordinamento delle varie scene che fanno il racconto; un raccontare che si snoda come un film realizzato mescolando, secondo un montaggio in itinere, le inquadrature sia in “soggettiva” (un discorso indiretto libero) che in “oggettiva” (un detto, una citazione, un nome, un virgolettato, ecc.). Il “come”, pur presente un impasto simbolico che miscela codici “idiolettici” diversi, naturalmente, salva la differenza. A mo’ d’esempio, due estrapolazioni da L’altro lato delle cose: “La prima cammisa mia” e “Sognando Calimero”.
La prima cammisa mia: «“E ora chi ci fazzu cu ‘sta cammisa?” Ossessionata dal quel bruciante pensiero, Angelina stringeva il pezzo di stoffa a fitti quadratini colorati, e asciugava, con l’unico polsino ancora immacolato, le instancabili lacrime sul viso smunto e pallido. (...) Le sedicenni dita di Angelina giocavano incoscienti e bambine spuntando, come un pupazzetto, dall’enorme buco sfrangiato creatosi per un colpo di lupara che, la mattina prima, aveva fatto saltare Ciccio come un fuscello dal suo piccolo carretto pieno di broccoli e finocchi. (...)». Sognando Calimero: «“Tutti fanno sempre così, perché loro sono grandi e io sono piccolo e nero. È un’ingiustizia, però!”» Il televisore era tutto ciò che aveva. Era tutto il suo mondo. Era, in verità, l’unico suo contatto con il mondo reale perché, a dispetto dell’elettrodomestico così alienante e mistificante, la vita che tutti vogliono è lì dentro, in quel tubo catodico dove la finzione, la magia, il trucco, le fantasie e i sogni sono l’unica realtà credibile. (...) Quel giorno d’estate, stava seduto sull’uscio a giocare con la plastilina. (...) Non sapevo, ma da artista dell’immagine, capii subito che la luce, quella che io addomesticavo per ottenere l’emozione più vicina al cuore del mondo, non c’era nel suo cuore. (...) “Vuoi che ti faccia un pupazzo?” Chiesi. “Sì, Calimero!” (...) Mi “guardò” come mai nessuno (...) Gli donai quel piccolo Calimero di plastilina, ma lui regalò a me la sostanza dei miei giorni. (...)».
Per chiudere questa nostra nota, certamente schematizzante, all’ipotetico lettore empirico o modello (in pre-lettura) di questi racconti, vogliamo segnalare che i titoli di ogni racconto sono formattati (qui, forse, vale la forza del pubblicitario, o del designer...?) con la dimensione del “visivo” e del suasivo – il corsivo, la grandezza dei caratteri, il mosso ondulatorio, o il non rettilineo del “paratesto” – per un ulteriore stimolo iconizzante (seduttivo?) la semantica complessiva dei testi.
Nino Contiliano